Intervento di Pino Pelloni al meeting “Pagine di Storia ciociara” tenutosi a Ceprano il 12 giugno 2022, promosso dall’Associazione Cappella Ferroviaria Pio IX e il Passo di Ceprano Edizioni
L’attenzione degli Storici alla storia sociale e locale, come orizzonte più ristretto ma più significativo della storia GRANDE, si deve alla generazione di studiosi che, durante il ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, a partire dalla Francia, rifondò il modo di fare Storia, ridefinendo sia gli oggetti di indagine sia le tecniche di raccolta ed interpretazione delle informazioni, e focalizzando l’attenzione non tanto sulla narrazione o sulla descrizione di singoli avvenimenti, isolati nel tempo e nello spazio, quanto piuttosto sulla conoscenza, scientificamente fondata, delle convinzioni condivise dai nostri antenati e sulla fitta trama delle loro azioni.
Anche la storiografia italiana ha conosciuto, nel secondo dopoguerra, un momento particolarmente significativo di dibattito sul tema dei rapporti tra storia locale e storia nazionale. Coinvolta fu allora la storiografia che si richiamava al marxismo e gli interventi che ne seguirono sulla rivista “Movimento operaio”.
E non va dimenticato che la grande fioritura di monografie locali che aveva preceduto quel dibattito (che si concluse, come è noto, con la chiusura della rivista) rispondeva, tra l’altro, a quel che Manacorda ha chiamato un risveglio di domanda storica coincidente con il generale rilancio dell’attività culturale nel secondo dopoguerra.
Metodologicamente, il genere monografico locale era incoraggiato per l’esigenza di procedere con rigore filologico alla sistemazione delle fonti della storia nazionale, in modo da rimediare (nel campo specifico della storia delle classi subalterne) alle insufficienze della tradizione storiografica liberale, e peggio ancora alle deformazioni della storiografia del ventennio fascista.
Questa rinnovata domanda di storia locale non nasce certamente solo dall’insoddisfazione per le sintesi generali: in essa convergono una coscienza che non è eccessivo definire drammatica della crisi della ragione storica, della rottura di nessi praticabili e coerenti tra presente e passato, di incertezze e più di impotenza a scegliere un criterio di lettura del passato teoricamente definito, liberi una volta per tutte del feticcio della “ricostruzione” di “ciò che è realmente accaduto” .
In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita dell’attenzione rispetto ai concetti di “locale” e di “località”. Ciò è avvenuto in ambito politico (locale vs. globale), ma anche in quello culturale (il patrimonio locale) e amministrativo (il decentramento, lo sviluppo locale), anche se l’attenzione delle scienze sociali non ha seguito, però, uno sviluppo organico.
La storiografia ha scontato un evidente ritardo, rimanendo a lungo legata ad una attenzione allo spazio poco analitica, soprattutto in Italia, dove la storia locale sconta una evidente marginalità rispetto alla storiografia accademica. Dall’interesse, fortissimo a partire dagli anni Ottanta, per il tema della “comunità”, fino agli studi più recenti, il tema del locale in storiografia ha goduto di una fortuna alterna.
Non esiste ancora nel nostro Paese un vero e proprio modello per il genere ‘storia locale’. I pochi tentativi di definirne l’identità si sono in effetti limitati o ad etichettarla come una pratica per amatori, oppure ad offrirne una connotazione popolare, dal basso (risolvendone l’analisi su matrici ideologiche), con il concetto di locale spesso identificato con quello di localistico.
E’ questa la conseguenza più ovvia per una tradizione che a lungo aveva insistito, sia a livelli accademici che nella pratica storiografica amatoriale su categorie come quelle di identità o di comunità.
La stessa attività delle molte riviste locali (regionali, cittadine o altro) non si era del resto quasi mai concretizzata in una discussione metodologica e storiografica più generale, prediligendo più semplicemente una vocazione di area (la “patria locale”), spesso con connotati celebrativi, oppure rivolgendosi al modello della storia regionale, a lungo prevalente in Italia, immaginata come antidoto alle presunte dilettantesche storie dei cultori locali, degli amatori.
Il nostro Premio FiuggiStoria dedicato al Lazio Meridionale e alle Terre di confine nasce proprio muovendo da un’esperienza storiografica di rottura, quella della microstoria, delle storie periferiche e lontane dalle Accademie. Tenendo sempre presente che il lavoro degli storici, ovvero la Storiografia, collega il passato al presente, precisa i comportamenti degli antenati per chiarirne le azioni, gli intendimenti, le convinzioni e gli affetti trasmessi, nel tempo e fino a noi.
Gli storici, ed è bene ricordarlo sempre, sono uomini del presente, interrogano e spiegano il passato in modo da chiarirne le differenze ed analogie, vicinanze e distanze rispetto all’oggi, giacché il passato influenza il presente più di quanto comunemente si creda: la cultura degli uomini, infatti, vale a dire la rete di senso che permette di recepire la realtà e, di conseguenza, di compiere azioni, cambia molto più lentamente dei mezzi tecnici dei quali ci si avvale per sfruttare l’ambiente e per produrre e distribuire ricchezza.
Per questa ragione la storia è disciplina del contesto e del globale che coltiva l’ambizione di pervenire a soddisfacenti comprensioni della condotta e degli atteggiamenti degli uomini del passato locale.
E poi lo studio della storia e la ricerca di fonti e testimonianze può aiutare a ricostruire l’evoluzione del “patto” di convivenza tra gli uomini di ogni tempo, nelle sue varie componenti: sociali, giuridiche, istituzionali.
La funzione civile della Storia consiste per l’appunto nel trasmettere il principio dell’identità culturale, cioè dell’appartenenza ad una società, ad una civiltà, che permette di comprendere perché le cose siano fatte in un certo modo e in relazione ai valori prevalenti nella vita sociale, civile ed economica. Di quel tempo e di quel territorio.
Contro l’indifferenza. Ebbene sì… l’indifferenza. Per dirla con Antonio Gramsci: “L’indifferenza é il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, é la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.”
E, aggiungo io, come al valore del dono della parola e della libertà di pensiero va sempre associato l’esercizio della memoria.
E alle storie della nostra terra, per ritrovare e riscopre per noi quel genius loci che ci fa comunità, quella lingua che è solo nostra, il dialetto che ci lega alla tradizione. Senza dimenticare che ‘Tradere’ vuol dire trasmettere, consegnare.
La perdita della memoria, delle lingue dialettali, la mancata attenzione verso le tradizioni locali (sedimentati in leggende, nomi, riti, calendari, saghe, canti, ordinamenti urbanistici, figurazioni della morte) o dei lavori tipici, rischia di far dissolvere il trascorso di questa nostra terra perdendo così un tesoro culturale immenso.
Queste “Storie” servono e serviranno anche in futuro a riprendere in considerazione il valore della tradizione che non significa solo riscoprire le proprie radici, ma riflettere sulla loro validità e propositività in questi giorni nostri votati alla modernità.
Che vuol dire esercitare la memoria?
Conformemente al linguaggio comune, si intende per memoria la facoltà umana di conservare tracce delle esperienze passate e di avere accesso a esse nel ricordo. Per gli ebrei, ad esempio, la memoria è soprattutto un ‘Dovere’.
La tradizione ebraica è caratterizzata dall’imperativo categorico zachor, ricorda. “Noi ebrei – scriveva Martin Buber nel 1938 – siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere…”. Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte. Ricordare vuole anche dire non dimenticare.
Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: “Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi (il corso della storia ), interroga tuo padre e ti racconterà, interroga i tuoi anziani e te lo diranno….”.
E nel ringraziare tutti voi, cortese pubblico, e gli amici Aldo Cagnacci, Gianni Martini, Fiorenza Taricone e Luigi Gulia che con i loro interventi hanno impreziosito l’incontro, vi saluto offrendovi a mo’ di riflessione questa massima di Marc Bloch: “La Storia nasce dalle domande che il presente rivolge al passato”.