Il contributo critico del professor Marcello Carlino dedicato alla mostra presentata a Palazzo Sant’Elia di Palermo in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2017.
Non v’è chi non sappia quanto abbia contato e quanto conti la cultura ebraica per le arti e la filosofia d’Occidente; ed è finanche superfluo dire, in aggiunta, come essa abbia inciso nel corso degli anni, e ad ogni latitudine, sulla ricerca intellettuale di maggior pregio e di più profondo significato. Tanti, nel Novecento, potrebbero renderne testimonianza, da Einstein a Benjamin, da Kafka a Chagall, da Roth a Singer volendo noverarne solo alcuni; e a tutti è comune il ritrovarsi in una esperienza esistenziale spesso potentemente drammatica, costante nei secoli, o il riconoscersi in un tratto identitario particolarmente forte, che è posto all’origine della storia di cui sono parte.
La diaspora definisce le premesse e lo svolgimento di questa sofferta esperienza; la diaspora è l’equivalente di questo tratto identitario, espressione di grande pregnanza simbolica delle vicende millenarie di un popolo.
L’esilio, una marginalità subita come vile esclusione e orrenda persecuzione, un’erranza fattasi segno di una condizione collettiva di sradicamento e divenuta coscienza antropologico-culturale: tutto ciò si riassume nella diaspora, un nome che ha consistente sostanza di cosa. E mentre è riferito strettamente alle diverse congiunture di un esodo senza posa che per gli ebrei cominciò fin dai tempi remoti dei regni di Babilonia, e mentre ne ricalca il diagramma sulle forme rizomatiche della disseminazione, tutto ciò si riveste di uno spiccato valore metaforico e proiettivo, di cui si è messa all’ascolto e ha fatto uso la più consapevole cultura novecentesca.
La realtà del poeta esiliato nella società di massa, quale già Baudelaire indicava profeticamente; l’accantonamento di arte e letteratura, o costrette a perdersi nella palta del mercato o tacitate; l’avventura della conoscenza che richiede un disporsi alla prova e all’autoverifica senza certezze aprioristiche e che non vuole saperne di mete predeterminate; la sperimentazione della crisi e della precarietà di qualunque ubi consistam ed un viaggio nella complessità del mondo e nella molteplicità dell’umana compagnia, tale che ricusi semplificazioni e stagli orizzonti tanto nuovi quanto incerti da esplorare; una erranza che affaccia sulla disseminazione, parola-chiave nelle poetiche degli anni Settanta del secolo scorso: la diaspora affratella alla storia del popolo ebraico molti fronti avanzati, costituitisi sui presupposti di una sicura coscienza di status e di ruoli in situazione, di posizioni e di compiti in essere, della cultura artistica dei nostri tempi.
Un carattere siffatto, doppio tra realtà storicamente data e prospezione metaforica – o rimemorazione partecipe di una condizione specifica vissuta di generazione in generazione ed espressione della coazione migrante che tutti ci concerne e i cui spazi tutti abitiamo – innerva la mostra che si intitola alla Diaspora (tema della Giornata Europea della Cultura Ebraica, 2017) e che si connota pertanto per una fitta trama dialogica: discorso unitario e organico, composto da una pluralità di voci che documentano e confrontano modi e linguaggi di cui è varia e ricca l’arte contemporanea.
Generi e tecniche diversi sono così di scena: dalla fotografia al collage, dalla grafica alla pittura, dal rilievo plastico talora in stiacciato alla installazione. E dal materico, reso per densità raggrumata o per gravità ponderale di oggetti definiti, si trascorre fino al rasciugamento e al dimagramento della materia, che si fa diafana, che quasi arriva a declinarsi per sottrazione in absentia.
Il gesto, che scaturisce dal profondo e che nella sua tensione accosta l’informale, si tiene da compagno ovvero si offre da contropiano ad una astrazione che schiera in nettezza forme geometriche e talora le polverizza, però conservandole, in uno sciame puntiforme. E la figura, sgranata per effetto di sovrapposizione, altrove diviene traccia o mera parvenza o eco che rimbalza da lontano alludendo ad una identità che si dissemina, che si perde.
Intanto stringhe di scrittura riconducono alle origini e convocano lacerti di storia e si rendono al fine precipitati di testi sacri; sono sedimenti di memoria che racchiudono il senso di tragedie impensabilmente disumane, orrendamente vicine. E riferiscono di una dialettica in corso con i segni visivi della grafica e della pittura, sotto il cui impulso ciò che le parole non riescono a dire è rifigurato indirettamente, per allusioni, e con giuste, necessarie reticenze – come di riflesso e per riverberi –, dai segni non verbali.
In questa chiave l’intera Diaspora in mostra è l’analogo di un solo libro d’artista in dodici parti rilegate. Che sono di per sé, per manifesto loro prodursi, e parlano al di qua di ogni puntuale rappresentazione.
Il certo è che un comun denominatore è il movimento: un movimento accennato da emergenze romboidali o da lingue di poligoni che hanno portanza di simboli e che cercano un ordine di ricostruzione potenziale dell’universo, come qualità della vita comanda; un movimento che in essenzialità di forme frammentate spera stelle sopra di noi e le schiera nella via lattea dell’utopia; un movimento che il quotidiano delle cose da vissuto rende sghembo, disforico; un movimento che la filosofia degli specchi prolunga in una sequenza che rimbalza tra il chiaro e lo scuro, tra il qui ed ora e un altrove che potrebbe orientarci.
Tutto è in presenza e in assenza, nel già stato che riaffiora per poter essere speso come memento per il futuro: tutto è, in viaggio, astrazione che si riflette nella concretezza storica ad essa guardando ed è memoria storica che si consegna alla specificità del linguaggio dell’arte e la pervade senza enfasi, senza orpelli retorici.
La diaspora è testimone che si raccoglie e si passa tenendolo vivo in una staffetta continua, catena solidale della migliore cultura: la diaspora consente con il work in progress che è atto di responsabile partecipazione: è questo il quadro progettuale, questo il programma esecutivo di Diaspora.
Marcello Carlino