L’arte del prendersi cura si fa medicina, la conversazione con Pina Casella ai ‘Lunedì di via Vittoria’
Gli incontri culturali della Fondazione, anno 2020, denominati i ‘Lunedì di Via Vittoria’, hanno avuto inizio il 13 gennaio con la conversazione che Pina Casella ha dedicato alle donne medico dall’antichità ai giorni nostri.
Il sottotitolo dell’incontro recitava “Il prendersi cura si fa medicina” e il racconto della Casella intessuto di notizie storiche, anedotti e curiosità, ha convinto il pubblico presente. Nell’introdurre la conversazione, Pino Pelloni e Felice Vinci hanno sottolineato come dalle civiltà più antiche e più lontane sono arrivate a noi testimonianze circa il ruolo delle donne “operatrici di salute” all’interno delle comunità di appartenenza. Questi modi di vita, questo buon senso, queste tradizioni semplici e ricche allo stesso tempo di nozioni tramandate per generazioni e di relazioni delicate e profonde con la natura, incontrarono periodi difficili.
Uno dei peggiori, le cui conseguenze arrivarono a condizionare la vita per molti secoli a venire, è stato certamente quello dell’Inquisizione. Gli storici discutono ancora oggi su quante furono le vittime di quel periodo; le cifre variano, ma tutti concordano, comunque, sul fatto che la stragrande maggioranza delle vittime furono donne. Furono spazzate via tradizioni e culture millenarie di cura e benessere e con particolare accanimento furono cancellate tutte le tracce sul benessere psicofisico e l’armonia con la natura e l’universo, che ci è stato tramandato in testi illustri, come nei Vangeli agli Esseni. Questa strategia di distruzione assicurò ai soli uomini le conoscenze mediche, dal momento che in quel periodo si decretò, in modo più o meno ufficiale, che soltanto i dottori educati in Medicina potessero praticare le arti guaritorie, e che le scuole di medicina venissero vietate alle donne.
Le donne furono accettate senza discriminazione nelle Università e nella professione medica soltanto fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900.
Ci sono due aspetti della cura che sarebbe auspicabile fossero sempre strettamente in sinergia (anche se purtroppo spesso non lo sono): il curare (diremmo oggi il fare la diagnosi e il prescrivere la terapia) e il prendersi cura (l’accudire stabilmente il malato sia da un punto di vista fisico che morale). Dall’inizio del tempo al femminile è stato associato il compito del prendersi cura. Nasce, credo, con il nascere della prole che va accudita, quindi, in primis, un prendersi cura che è legato alla sopravvivenza della prole e quindi della stirpe. Vi è poi un altro aspetto del prendersi cura che riguarda più da vicino il prendersi cura del sé femminile: è il campo dell’igiene, della cosmesi della bellezza.
Nel tempo, tutti questi aspetti, come vedremo, saranno sempre presenti anche se variamente connessi e intrecciati tra di loro. Sempre e comunque alla donna è delegato un prendersi cura della vita in tutte le sue sfaccettature e sono profondamente convinta che è proprio dal prendersi cura che nasce, nel mondo femminile, la necessità e il desiderio di curare. Nel mondo femminile i due aspetti sono, a mio avviso, da sempre profondamente connessi, anche se spesso in sordina e con tutte le variabili legate al momento storico in cui le donne si sono trovate a vivere e operare, in un contesto che, come sappiamo, ha sempre delegato prevalentemente agli uomini l’aspetto squisitamente medico della cura. Infatti nell’età moderna è solo intorno alla metà dell’Ottocento che è stato reso possibile, stabilmente, l’accesso delle donne alle libere professioni e quindi anche, ufficialmente, alla medicina (la prima donna medico che si è ufficialmente laureata, secondo i nostri canoni attuali, è stata nel 1849 a Philadelphia: Elizabeth Blackwell).
La nostra storia, comunque, partendo appunto anche dall’arte del prendersi cura, con molti intrecci, discontinuità e curiosità ha inizio molto, molto tempo prima.
Siamo intorno all’anno 2700 a. C., antica età del bronzo: ed è qui che incontriamo quella che viene considerata la prima donna medico della storia. È Merit Ptah che visse in Egitto tra la II e la III dinastia. Il suo nome vuol dire “amata da Ptah“, il dio, tra l’altro, del sapere e della conoscenza. La sua tomba, con relativa immagine ed iscrizione, si trova a Saqqara. Viene definita dal figlio, che fu un Sommo Sacerdote, “medico capo” o “sommo capo”. Non dimentichiamo che l’Egitto verrà considerato dal mondo greco come la culla della medicina. Il fatto poi che Merit Ptah praticasse la medicina nella civiltà matriarcale faraonica egizio-nubiana con un rango di gran rilievo, deve essere considerata una cosa rientrante nella normalità di quel lontano periodo storico ed è questo uno degli aspetti più rimarchevoli. Un’altra famosa figura di medico donna dell’antico Egitto di cui abbiamo notizie specifiche fu Peseshet, che visse nel periodo della IV dinastia.
Nessun’altra civiltà dei tempi a venire, nemmeno, come vedremo, quella greco-romana o quella persiana, avrebbe poi coltivato in egual misura la parità delle donne. A proposito del campo medico, si ritiene che già attorno al 3000 a. C. in Egitto esistessero scuole di medicina per le donne che avessero voluto specializzarsi nel campo della ginecologia. Un inizio inaspettato e straordinario: ma la storia, per quanto intrecciata, come ben sappiamo è spesso discontinua.
Riprendiamo il nostro viaggio nel tempo: la mitologia dell’antica Grecia ci farà da guida. Non è un caso che la figlia prediletta di Asclepio, il Dio della medicina dell’antica Grecia (che sarà poi l’ Esculapio dei romani), fosse Igea, sempre rappresentata accanto al padre quale personificazione della buona salute e delle regole “ igieniche” atte a mantenerla (dal suo nome derivano i nostri termini: igiene, igienico ecc.). Oggi diremmo che Igea è la personificazione della “Prevenzione”: veniva infatti invocata per prevenire malattie e danni fisici (Asclepio veniva invece invocato per la cura delle malattie). Da un punto di vista iconografico viene rappresentata come una giovane donna nell’atto di dissetare un serpente in una coppa: la coppa d’Igea. Igea sarà poi molto onorata anche nel Pantheon degli dei romani come Dea Salus. Un’altra figlia di Asclepio è Panacea, che presiedeva all’uso delle erbe magiche e officinali: qui ci avviciniamo di più all’aspetto della cura (più tardi gli alchimisti trassero da lei il concetto di Panacea Universale). In una parola Asclepio, nell’immagine evocativa del mito, senza le sue due figlie non poteva definirsi completo!
Permettetemi ora una piccola digressione per avere tutti noi una comune cornice storica della medicina. Nell’antica Grecia i depositari della sapienza medica tradizionale erano quei sacerdoti – e qui siamo di nuovo al maschile – consacrati alla medicina misterico-iniziatica fondata dal Dio Apollo e dei quali appunto Asclepio rappresentava l’erede e la figura operativa centrale. Il culto di Asclepio vide i suoi natali probabilmente in Tessaglia ma ebbe il suo fulcro centrale ad Epidauro, dove fu edificato uno dei templi più importanti: non dimentichiamo che proprio il tempio fungeva da luogo di risanamento dei malati attraverso una serie di operazioni di “rettificazione “ completa dell’anima fino ad arrivare alla radice delle vere cause che stavano alla base dello squilibrio psico-fisico. Comunque la si voglia interpretare, questa modalità di cura prevedeva una buona dose di “corresponsabilità” da parte del malato che ad essa ricorreva.
C’era infatti una prima parte diremo noi oggi catartica con purificazioni costituite da digiuno, astinenza sessuale, uso di profumi particolari, partecipazione ad inni e musiche apollinee. La fase successiva prevedeva offerte libatorie, sacrifici e l’assunzione di bevande sacre; vi era poi la liberazione dal morbo tramite l’incubazione notturna nell’Abaton (“inaccessibile”) del tempio, all’interno del quale il malato, avvolto nelle pelli e pellicce di animali precedentemente sacrificati ad Asclepio, attraverso il Sogno riceveva dal Dio la rimozione o le indicazioni per la rimozione di ogni male. Come sappiamo il potere terapeutico, direi “digestivo” dei sogni (riscoperto dalla Psicoanalisi) è sempre stato conosciuto. È in questo aspetto che si manifesta quella dose di “corresponsabilità” del malato di cui vi accennavo: se la cura non funzionava non dipendeva solo da Asclepio, ma anche dal malato che non aveva ben accolto il potere onirico del Dio!
Ed è proprio a proposito del potere terapeutico dei sogni che torniamo al nostro fil rouge femminile: è infatti Penelope che, nel XIX Canto dell’Odissea, ci viene in aiuto e ci rivela che i sogni hanno origine negli Inferi (nell’Ade), dove vi sono due porte, una d’avorio, opaca, dalla quale escono i sogni falsi, ed una di “polito corno”, trasparente, attraverso cui passano i sogni profetici (curativi). È, quindi, per bocca di una donna come Penelope che ci viene tramandato il saggio monito di ricordare che i sogni, di fatto, sono inesplicabili e portano messaggi difficili da interpretare, “né (come ci dice Omero) ogni cosa che è in essi si compie per i mortali”. In altre parole, quello che ci sta dicendo Penelope è che la fiducia nella cura, come anche nel tempio di Asclepio, deve essere sempre accompagnata da un saggio equilibrio: pertanto non credo sia un caso che queste parole vengano da Omero messe in bocca ad una figura femminile simbolo essa stessa di solido equilibrio e di molta pazienza! Del resto, comunque, anche Elena di Troia, che aveva ben altra fama, aveva specifiche competenze “mediche”; infatti Omero, a proposito di certe sue pozioni curative, ci dice: “…tali rimedi sapienti aveva che Polidamna le aveva dato”. Polidamna ha a che fare con l’Egitto e la sapienza medica egizia che, come abbiamo visto, ha dato ampio spazio alle donne ed ha sempre avuto una sua grande influenza nel mondo greco.
Nell’Odissea vi è anche il personaggio di Circe polipharmakos, “quella dalle molte pozioni”. Qui Omero, come ci spiega Felice, ci apre ancora un’altra prospettiva: lo sciamanesimo femminile. C’è da riflettere, infatti, sul fatto che nell’antichità lo sciamanesimo non sia esclusivo appannaggio del mondo maschile; come appunto ci ricorda Felice, lo sciamanesimo artico, per esempio, solitamente è femminile.
Dello sciamanesimo femminile nell’antichità non si sa però molto ed è spesso oscurato. Questo forse perché l’idea stessa della donna sciamano, anche nel nostro attuale immaginario, incute un certo timore: è in possesso del segreto di sostanze presumibilmente psicotrope, come ci insegna la vicenda di Ulisse, ed è, quindi, per definizione, detentrice di un grande potere che, soprattutto al femminile, è sempre molto inquietante. È, comunque, un aspetto che, a mio avviso, si ricollega alla figura mitica della Dea Panacea e del suo legame, nel tempo, con l’Alchimia.
Al di là del mito che avvolge il periodo più arcaico, la prima figura di medico asclepiade nell’antichità è Ippocrate di Kos (460-377): la sua Scuola, pur rimanendo legata alle pratiche sacre del Tempio, aveva comunque raggiunto la maturità di una téchne autonoma dotata di propri principi e procedimenti (quello che poi ci verrà trasmesso nei secoli come il Corpus Ippocrateo). Un aspetto importante da non dimenticare anche per la nostra cornice è il seguente: come attesta Platone nel Fedro, Ippocrate seguiva un metodo secondo cui non era possibile curare la singola malattia ed il singolo paziente “senza conoscere la natura del tutto”: l’holon (da cui il nostro termine e concetto di “olistico”).
Nella cornice storica dell’antica Grecia, la prima donna medico di cui ritroviamo le tracce è Agnodice Fanostrata (Atene IV-III sec a. C.), dove Agnodice, cioè “casta e giusta”, sembra essere il soprannome di Fanostrata. Di buona famiglia ateniese, si taglia i capelli e si traveste da uomo per studiare medicina ad Alessandria d’Egitto con Erofilo, uno dei più rinomati medici dell’epoca. Il travestimento è reso necessario dal divieto di studiare medicina imposto alle donne e agli schiavi. Conclusi gli studi, rientra ad Atene dove diventa un’ostetrica molto ricercata. Sempre, necessariamente, vestita da uomo, usa mettere le sue pazienti a loro agio sollevando le vesti per rivelare il proprio sesso. Gelosi del suo successo, i medici ateniesi la chiamano in giudizio davanti all’Areopago, accusandola di sedurre la pazienti. In tribunale lei solleva di nuovo le vesti. Scoprono che è una donna e secondo la legge ateniese, per aver praticato la medicina sotto mentite spoglie, viene condannata a morte. Nell’udire la notizia, numerose mogli di ateniesi illustri circondano il tribunale e minacciano di uccidersi se la sentenza verrà eseguita. Ottengono così che non solo Agnodice continui ad esercitare, finalmente in abito femminile senza doversi più nascondere, ma che la legge venga cambiata e che le donne nate libere possano svolgere la professione medica, a condizione che curino soltanto le donne. Una grande vittoria. Dalle fonti a noi pervenute non emergono, comunque, altre figure specifiche di donne medico nell’antica Grecia, anche se adesso sappiamo che, pur con le limitazioni che abbiamo detto, ve ne devono essere state molte di più di quanto non ci si potesse immaginare. Agnodice Fanostrata rimane la nostra eroina!
Dopo Agnodice Fanostrata dobbiamo proiettarci nei secoli successivi per trovare nuove tracce. Riprendiamo quindi il filo del tempo per aggiornare la nostra cornice storica: la medicina ippocratea sbarca a Roma, da dove attraverso Celso (14 a. C. – 37 d. C.) e soprattutto Galeno (129 d. C.) si diffonderà poi per secoli intrecciandosi con diversi ulteriori apporti culturali. Per inciso, un’osservazione linguistica importante: esiste sia in greco che in latino il termine femminile di medico. Rispettivamente: eiatrinés e medica. Tutto ciò va a confermare la diffusione della scienza medica al femminile nel mondo greco-romano.
Dell’ epoca romana scopriamo però che non si hanno che scarsissime notizie circa l’esistenza reale di donne medico. La Dea Salus a cui abbiamo accennato in precedenza era molto venerata, ma la reale questione delle donne medico nell’antica Roma è complessa e non si hanno nomi di spicco. Non si sa con precisione se non se ne abbiano notizie specifiche, quante potremmo aspettarci, perché se ne sono perse le fonti o perché (e questo a mio modesto avviso è forse l’ipotesi più probabile), sebbene la donna romana fosse molto attenta alle cura del corpo (pensiamo alle Terme) e godesse di molti diritti (per esempio riguardo all’istruzione, come vedremo anche nel campo medico) non si vennero a creare le premesse storico-sociali affinché si sviluppasse realmente una figura autonoma di rilievo della donna medico nell’ambito della società romana, così come abbiamo visto nell’antico Egitto. Ad esempio, nell’antica Roma si parla, in modo confuso e non chiaro, di due appellativi, medica e obstetricex: erano due figure distinte o confluivano una nell’altra? Non lo sappiamo.
Alcune iscrizioni ritrovate mostrano che le donne potevano teoricamente accedere al sapere medico, però non abbiamo notizie precise circa la loro attività: in queste epigrafi si legge infatti che le donne avviate all’arte medica o che volevano diventare medico potevano apprendere il mestiere frequentando qualche medico più o meno famoso, più di frequente il loro padre o marito se esperto in questo campo. In una di queste iscrizioni si legge di una certa Naevia Clara “moglie di un medicus chirurgus”, che viene detta medica philologa, ossia donna colta e molto preparata in medicina sotto il profilo teorico. Da altre fonti peraltro si apprende che rimane sempre molto vivo lo stereotipo che i medici veramente capaci sono uomini e che, se il medico è donna, merita fiducia solo se si comporta come un uomo (more virum). È questo il caso di Aemilia Hilaria: Ausonio, un poeta latino del IV sec, nel tessere l’elogio della zia materna, appunto Aemilia Hilaria, virgo devota, afferma che non era diversa da un maschio e nel campo medico era capace quanto un uomo. Insomma anche a Roma una donna merita fiducia nel campo medico solo se si comporta come un uomo!
Negli stessi secoli non dobbiamo dimenticare l’apporto del mondo medio-orientale. Sono giunte infatti fino a noi molte epigrafi sepolcrali dei primi secoli dopo Cristo provenienti dall’Asia Minore in cui si legge che in vita le defunte avevano esercitato la professione di medico; non se ne hanno, però, notizie specifiche.
C’è poi una figura femminile molto significativa appartenente al mondo ebraico; ce ne parla il filosofo Zosimo di Panopoli (attivo nell’Egitto del IV sec d. C.) che la menziona tra i grandi “saggi”: è Maria la Profetessa, o Miriam, molto importante sul versante alchemico del sapere curativo. Ha, infatti, delineato le linee fondamentali dell’Alchimia occidentale ponendo le fondamenta per la nascita della chimica moderna, assolutamente indispensabile anche per la farmacopea e quindi per la medicina dei nostri giorni. L’ipotesi più accreditata è che Maria abbia studiato tra il II e il III sec d. C. ad Alessandria d’Egitto. La sua immagine più verosimile che ci è pervenuta è quella di una donna bruna con un indubbio e riconosciuto carisma. Una curiosità: a lei sembra si debba attribuire l’invenzione di quella tecnica di cottura a doppio bollitore chiamata proprio in suo onore Balneum Mariae (“bagnomaria”), nonché la creazione di particolari alambicchi importanti per gli esperimenti di distillazione e sublimazione delle sostanze.
Inoltre, nello stesso arco di tempo, tra i Santi dei primi secoli del Cristianesimo (quindi in un ambito culturale permeato dal sapere greco-romano innestato nel nuovo spirito della religione cristiana) troviamo due donne di cui si diceva essere “sapienti nell’arte medica”: Santa Teodosia (che nasce a Tiro in Fenicia intorno al 239 d. C.) e Santa Nicerata, la cui figura è collocata a Costantinopoli sotto il regno dell’Imperatore Arcadio (395-408 d. C.); di costei si diceva che avesse guarito San Giovanni Crisostomo da una grave malattia. Inoltre fu una matrona romana di fede cristiana, la nobile e ricca Fabiola, a fondare nel 390 d. C. il primo ospedale della storia, il nosokomion di Roma, assumendosi anche delle specifiche mansioni mediche. La storiografia ce la descrive come una donna molto bella che, con due matrimoni infelici alle spalle, si convertì al cristianesimo e dedicò la sua vita alle opere di carità e di assistenza medica, diventando essa stessa assai esperta nell’arte della cura. Donne, diremmo magari noi oggi, che forse appresero l’arte medica prevalentemente sul campo, ma che erano sicuramente degne di una laurea ad honorem in medicina!
Successivamente, la Regola di San Benedetto nel 534 obbligherà i Monasteri, anche femminili, a fornire assistenza ai pellegrini e ai malati. Nel VI sec d. C. a Costantinopoli troviamo poi una certa Metrodora famosa per un suo importante trattato di medicina generale dell’epoca d’impostazione squisitamente empirica, basata cioè sulla diretta esperienza: sembra che questo trattato abbia avuto una notevole diffusione.
Continuiamo il nostro viaggio nel tempo. La sapienza greco-romana, con l’apporto dell’esperienza delle prime comunità monastiche benedettine, giungerà sino al pieno Medio Evo e approderà alla Scuola Medica Salernitana, dove si fonderà in un sincretismo straordinario con i saperi provenienti anche dal mondo medio-orientale, ebraico ed arabo, che tra l’altro, per nostra fortuna, aveva potuto conservare molti testi del Corpus Ippocrateo andati perduti nell’incendio della Biblioteca di Alessandria.
Le prime testimonianze storiche della Scuola Medica Salernitana risalgono a prima dell’anno mille, il suo apogeo sarà tra l’ XI ed il XIII secolo ma il suo sapere si diffonderà in tutta Europa per molti secoli (una curiosità: la sua soppressione ufficiale verrà decretata solo nel 1811 da Gioacchino Murat). Secondo la leggenda, essa sarebbe nata dall’incontro di 4 maestri: uno arabo, uno greco, uno ebreo ed uno salernitano, rispettivamente Adela, Ponto, Elino, Salerno; ciò ben descrive il sincretismo culturale che ha sempre caratterizzato la Scuola Salernitana, “ponte ideale tra l’antichità e l’era moderna“, tra la civiltà greco-romana, benedettina e quella medio-orientale ebraica ed araba. Il famoso Regimen Sanitatis Salernitanum è una raccolta di 103 aforismi in versi: sobrietà, moderazione e cura del corpo ne sono i principi ispiratori. La dottrina che ne è alla base viene definita anche Dottrina Tetratica per la presenza ricorrente del numero 4: quattro sono i Maestri fondatori, quattro sono gli Umori che costituiscono il corpo umano (sangue, flemma, bile gialla e bile nera) e quattro sono le Qualità Naturali: caldo, freddo secco e umido, che si possono variamente comporre tra loro.
Comunque l’aspetto per noi più significativo della Scuola Medica Salernitana è la presenza, per tutto il periodo del suo apogeo, di donne medico. È, infatti, intorno all’anno mille che compare ufficialmente, nell’ambito della Scuola, la figura della donna medico così come possiamo intenderla anche in senso moderno. In particolare, una figura assai significativa nel campo del sapere medico femminile è Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo e considerata a tutti gli effetti la prima donna laureata nell’arte medica. Vediamo di conoscerla più da vicino: Trotula nacque a Salerno da una nobile famiglia normanna, famosa per aver donato a Roberto il Guiscardo parte dei propri averi per la costruzione del Duomo di Salerno, e, grazie alle sue origini, ebbe l’opportunità di intraprendere studi superiori e di medicina. Sposò il medico Giovanni Plateario ed ebbe due figli che proseguirono l’operato dei genitori. Trotula viene spesso raffigurata in un rigoroso abito medioevale, quasi monastico seppure elegante nella sua semplicità. Nel dedicarsi allo studio delle erbe medicinali nel famoso Orto dei Semplici della Scuola Salernitana, scoprì, tra l’altro, il potere antibatterico della rosa e con esso uno speciale preparato per l’igiene intima femminile. Scrisse due saggi di gran fama: nel primo parla di studi legati alla ginecologia, all’ostetricia e alla pediatria, nel secondo si concentra su nozioni di igiene e cosmesi. Trotula, comunque, non tratta con accenti frivoli la bellezza, che per lei è segno di un corpo sano nonché dell’ armonia del corpo con la psiche e con l’universo.
Torniamo ora al nostro fil rouge. I precetti della Scuola Medica Salernitana viaggiano per secoli in tutta Europa; tuttavia, rispetto a quanto appena detto di Trotula, ben diverso sarà l’approccio alla bellezza muliebre nel corso del Rinascimento. Infatti nel XVI secolo incontriamo una nuova figura femminile decisamente assai diversa ma di sicuro rilievo sotto molti punti di vista: Caterina Sforza Medici, la quale non fu una reale donna medico, ma credo utile inserirla in questa nostra scorribanda perché entra a pieno titolo nella storia della medicina. Signora di Imola e Forlì, gran donna “guerriera” madre di Giovanni dalle Bande Nere, Caterina fu tra le donne più belle del suo secolo, “di elegante aspetto e dotata di forme mirabili”. Nel dettaglio le cronache dell’epoca la descrivono così: “alta, ben proporzionata, di aspetto formoso e sguardo fiero”.
Nel corso della sua vita intensa e avventurosa Caterina scrisse quello che verrà riconosciuto come “il documento più completo ed importante sulla profumeria e sulla medicina del secolo XVI”. Le ricette di medicina del suo Ricettario sono ben 357, esposte secondo il sistema officinale, vale a dire con l’indicazione del metodo di preparazione, e qui ci ricolleghiamo alla Scuola Salernitana, anche per un altro aspetto: infatti l’orto dei semplici che Caterina coltivò a Milano, curandolo fin dalla prima giovinezza, e che impianterà ovunque nelle sue successive dimore, molto deve alle scoperte dell’orto dei semplici della Scuola. Vi sono inoltre descritti rimedi che verranno poi riscoperti ed utilizzati nei secoli successivi. Uno tra i tanti: viene spiegato l’uso, ante litteram, del cloroformio per addormentare (anestetizzare) i malati.
Capitoli a parte nel Ricettario sono riservati alla cura della bellezza, con un intento decisamente più frivolo e meno rigoroso rispetto a Trotula, comunque molto apprezzato e seguito. Le ricette di cosmesi sono ben 87: come sbiancare i denti; come mantenere i capelli color del grano; belletti e profumi per conservare la linea, levigare, rassodare, schiarire, depilare, detergere, tonificare, idratare, truccare e profumare. Una curiosità: un anno prima della sua morte, faceva chiedere ad Anna, donna ebrea romana, alcune ricette di creme per il viso e “uno unguento negro el quale assottiglia la carne e la fa lissa”: insomma un rimedio contro la cellulite! In questo quadro non mancano numerosi suggerimenti afrodisiaci, materia di cui era molto esperta: sembra che il Ricettario di Caterina non abbia nulla da invidiare ad un manuale di sessuologia! Negli anni ’30 del secolo scorso ne fu fatta una pubblicazione a tiratura limitata: andò immediatamente a ruba, anche se il suo linguaggio (un misto tra l’italiano dell’epoca, il latino ed espressioni dialettali della terra di Romagna) non ne rendeva facile la comprensione.
Un ulteriore aspetto di Caterina, da inserire nella cornice culturale dell’epoca (siamo in pieno Cinquecento), è la sua attenzione, anzi direi la sua passione, per l’alchimia e qui ci possiamo ricollegare alle figure di Panacea e di Maria la Profetessa. Le une avvolte nei panneggi delle loro antiche vesti, lei con le sontuose vesti damascate del nostro splendido Rinascimento, sono tutte espressione della passione per la scoperta delle arti alchemiche, del segreto dell’eterna giovinezza simbolo della bellezza e della salute.
Infine, per concludere questa nostra breve scorribanda nel tempo e nella storia della medicina antica e medioevale con uno sguardo al femminile, mi piace leggervi l’epigrafe sulla stele di Agnodice Fanostrata (un bassorilievo raffigurante due donne e quattro bambini): “Qui giace Fanostrata, levatrice e medico che non ha mai fatto male a nessuno e che, dopo la sua morte, è rimpianta da tutti”.
Giuseppina Casella, Roma 13 gennaio 2020