In occasione del Giorno della Memoria è stato presentato a Roma il libro “Il mio diario di guerra” di Romolo Murri edito da Festa Mobile, la linea editoriale della Fondazione Giuseppe Levi Pelloni.
L’incontro, a cui hanno contribuito le voci e le testimonianze di Luca Caburlotto (Soprintendente archivistico del Friuli Venezia Giulia), Katia Ranieri (PhD in Geopolitica), Ilaria Pisciottani, (Responsabile Arti visive della Fondazione Giuseppe Levi Pelloni), Anna Caterina Alimenti Rietti (Responsabile Archivio Arturo Rietti) e il piccolo Damiano Dell’Agli, si è tenuto il 27 gennaio nella Sala David Sassoli di Palazzo Valentini.
Dalla presentazione di Pino Pelloni: Una voce dalla trincea.
“Va ricordato come siano stati proprio gli anni della Grande Guerra a fare emergere e lievitare una vasta serie di scritture popolari dipanatasi tra raccolte epistolari, diari e memorie redatte delle classi popolari e contadine a quei tempi in larga parte escluse ed emarginate. Solo in Italia le lettere scambiate tra i militari arruolati, le loro famiglie e altri soggetti furono circa quattro miliardi. Per non parlare dei diari, puntuali annotazioni giornaliere di eventi, al fronte o nei campi di battaglia, raccolte in piccoli quaderni improvvisati. Tanto che la storiografia del Novecento è finita debitrice di queste storie dal basso utilizzate per ridisegnare l’esperienza della guerra. E raccontare la Grande Storia con il contributo di un racconto corale e concreto, senza fronzoli, il più delle volte sgrammaticato affrontato da giovani arrivati al fronte da paesi lontani, soprattutto del Sud, dove anche la comprensione linguistica era opera ardimentosa in un Paese, il nostro, dove ancora non esisteva una lingua unitaria. Storie annotate con diligenza a riempire vuoti temporali e a mitigare la paura con il pensiero rivolto sempre alla famiglia lontana. Certo, storie non stilisticamente confezionate come quelle del sottotenente Gadda, che nelle sue parole fa rivivere l’orrore e la tristezza della solitudine, quando la disfatta di Caporetto e la prigionia in Germania peseranno come un macigno sul bilancio della sua partecipazione alla guerra.
O quelle della diciottenne Ingeborg Bachmann riportate nel suo diario del 1945, fortunatamente salvato dall’oblio. Un diario di stupefacente intensità, che testimonia la profonda ripugnanza etico-estetica nei confronti del nazismo e l’euforia per la caduta della tirannide. O quelle ancora del “Diario di guerra 1914-1918” di Ernst Jünger che ci regalano una straordinaria testimonianza di quella “Grande guerra” che, a pochi anni dalla conclusione, tutti iniziarono a chiamare Prima guerra mondiale. Si tratta di annotazioni che iniziano il 30 dicembre 1914 con la partenza dell’autore diciannovenne in direzione del fronte, per concludersi all’inizio di settembre del 1918. Ci troviamo tra le mani l’unico diario bellico che documenti la Prima guerra mondiale dalla prospettiva di un ufficiale di prima linea coprendo un così ampio arco temporale e presentando una tale assiduità di registrazioni.
Quindi la Grande Guerra produsse tante e poi tante scritture e fonti testimoniali da considerarla oggi come un’epoca di autorappresentazione collettiva che ci ha aiutati a leggere i fenomeni sociali e di cambiamento culturale di quegli anni lontani. Ed è vero il fatto che mai prima di allora le società europee avevano raccontato se stesse, i propri sentimenti, le proprie sofferenze, le proprie mentalità, in forma tanto ricca anche negli strati tradizionalmente più lontani dalla consuetudine con la comunicazione scritta, e in ogni caso mai prima d’allora di testimonianze tanto fitte erano rimaste tracce proporzionalmente così copiose.
Lo scrivere era diventato funzionale al mantenimento dei contatti con i propri cari e con i compaesani proprio per difendere quel ponte comunicativo che il conflitto rischiava di interrompere.
La lingua prodotta era povera, la scrittura incerta, impregnata dagli usi orali e dalle forme dialettali ma forte da dar vita a una lingua scritta popolare, un terreno comunicativo di frontiera lungo il quale si muovevano con difficoltà e goffamente soggetti poco o nulla alfabetizzati per i quali l’esperienza bellica rappresentò un’irripetibile e tragicamente casuale occasione di acculturazione.
E all’abitudine di consegnare le proprie impressioni, i vari accadimenti e i propri stati d’animo a consunti quadernetti non è sfuggito neanche Romolo Murri, classe 1889, partito Caporale e congedato col grado di Sergente maggiore.
Se nelle lettere ai familiari i nostri soldati, per il pesante condizionamento da parte della censura, erano costretti a limitare il racconto di sé per lasciare spazio a rassicurazioni e richieste di informazioni e aiuti, nel gestire un proprio diario avevano più libertà espressiva. I diari godevano di una sorta di neutralità in quanto al di là della soggettività, potevano essere mossi dagli intenti più diversi, compreso quello di farsi leggere in caso di morte.
A noi sono arrivate queste paginette di Romolo Murri che un suo nipote, Massimo Pisciottani, ha conservato con devota cura e ora ha affidato alla lettura delle nuove generazioni. E con amore filiale ne ha decifrato la grafia, ne ha riordinato le fotografie, recuperato le cartine degli avvenimenti bellici. E il racconto che ne scaturisce reca tutt’intero il carattere dell’urgenza. Un afflato di umanità ferita, uno sguardo attento ai dolori provocati dalla guerra sia tra i commilitoni sia tra i nemici, una riflessione intima sulla propria fragilità dinanzi alla ferocia del conflitto. Un diario, questo di nonno Romolo, scritto con grande sensibilità e una inedita vena poetica e donato ai suoi eredi come testimonianza di una vita vissuta nel segno della comprensione e dell’onore.”