Un nuovo umanesimo nello “spazio laboratorio” del Mediterraneo

Un nuovo umanesimo nello “spazio laboratorio” del Mediterraneo

L’intervento di Pino Pelloni a Palazzo Valentini di Roma in occasione del Premio Internazionale Cartagine (venerdì 18 ottobre 2024)

Il Mediterraneo è “Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare. Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo”. Queste indicative parole le ho prese in prestito dallo storico francese Fernand Braudel.

Il Mediterraneo è un’immensa “pianura d’acqua”. Uno spazio che produce più storia di quanto riesca a consumare. Il Mediterraneo è un mare più denso di storia di qualsiasi Oceano. Capace di costituire un incrocio di paradigmi, unità e diversità, incontro e scontro di Est e Ovest, Nord e Sud. Un mare che confina con tre Continenti e sconta questa sua particolarità in termini di conflitti, ma ne sfrutta i benefici in termini di ricchezza e di cultura. E’ nel Mediterraneo che abbiamo le tre religioni monoteiste ancora oggi più praticate al mondo, le metropoli e i paesi, l’idea di polis e quella di universalismo imperiale. Questa lunghissima storia ha generato grandi culture: “il Mediterraneo”, ha detto Egidio Ivetic, professore di Storia Moderna a Padova “è il museo necessario all’umanità: conserva tracce di arti, teatro, danza, musiche, cucine, tradizioni fondamentali per comprendere il passaggio e la permanenza dell’uomo sul Pianeta”.

Ma, ahinoi!, oggi il Mediterraneo non è solo un mare ma un’area geopolitica nella quale si intersecano le contraddizioni più spinose del nostro modello di sviluppo. È un’area segnata da disuguaglianze sociali enormi, da regimi autocratici, da migrazioni di uomini e donne, da rilevanti interessi economici.

Per l’Europa rappresenta un grande bacino di affari economici, dalla ricostruzione all’accaparramento delle ricche risorse del sottosuolo, con l’Italia che ha perso la sua centralità mentre la Turchia ne ha di fatto costituito un proprio protettorato, con delle politiche di controllo delle migrazioni già sperimentate e messe a frutto sul proprio territorio.

Il fenomeno migratorio è uno dei grandi protagonisti dell’area mediterranea: i migranti sono visti sempre meno come esseri umani detentori di diritti, primo tra tutti quello alla mobilità – non necessariamente per un miglioramento delle proprie condizioni ma semplicemente per cambiarle, come ogni altro cittadino europeo. Le responsabilità della politica sono enormi ma non sono le sole: anche una fetta importante di intellettuali e mass media hanno ceduto nell’assumere culturalmente un dispositivo vittimario, costruito intorno alle nostre paure e alla retorica dell’invasione, o, nel migliore dei modi, narrato attraverso la metafora di mani nere che, sul punto di affogare, sono salvate da mani bianche.

Abbiamo così finito col proteggere i confini e non le persone e il risultato è che nel Mediterraneo si sta producendo l’equivalente della “deriva dei continenti”, dove sono le comunità ad allontanarsi sempre di più: dobbiamo agire presto, per un dialogo dei popoli e non dei poteri o degli Stati.

Abbiamo bisogno di una nuova narrazione, di un nuovo pensiero sul Mediterraneo, che sappia mettere insieme, circolarmente e olisticamente, le grandi questioni che lo attraversano: dalla giustizia sociale ai cambiamenti climatici, dai conflitti alle negazioni dei diritti umani, dal restringimento degli spazi democratici allo sfruttamento delle risorse naturali, dalle migrazioni umane al commercio di beni.

Un “nuovo umanesimo” non può che essere basato sulla capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare, questo superando una visione identitaria delle appartenenze religiose, soffocate dall’alimentazione delle paure umane più che ancorate sul respiro di un Dio che non conosce barriere, la cui visione non può essere settaria ma è universale

Sono convinto che questo nostro Mediterraneo, diventato oggi l’epicentro di una tragedia umana, frutto avvelenato di sperequazioni globali inaccettabili e di ingiustizie strutturali, possa al contrario essere riabilitato come laboratorio privilegiato di una nuova fraternità tra i popoli.

Ora, non è alla sola cultura europea che può essere ricondotto l’umanesimo mediterraneo. Occidente e Oriente si incontrano sulle rive del Mediterraneo e anche l’Africa con il suo patrimonio di saggezza ne è parte.

Abbiamo quindi urgente bisogno di disegnare una nuova antropologia, che esca da un antropocentrismo autoreferenziale, per affermare l’homo ethicus contestando la prospettiva dell’homo oeconomicus.

Contro i facili riduzionismi, facciamo nostra la “misura smisurata” dell’incontro e dell’essere irriducibilmente in relazione che questo mare non smette di raccontare. La “misura smisurata” del riconoscimento reciproco, dell’ospitalità, dello scambio di doni, di un’unità che fiorisce nella diversità. Infatti ciò che più caratterizza la mediterraneità è il senso dell’ospitalità.

Certo, molto cammino è ancora da fare. Ecco perché quest’accoglienza non è un semplice gesto di profonda umanità che salva dalla chiusura disumanizzante: è un gesto di fede.